Ego Filosofia:
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Periodico di Informazione Culturale e di Ricerca Filosofica
Direzione, Redazione, Amministrazione: Via Reano, 1 bis
- 10147 Torino - Tel e fax 011 3853793
Direttore Responsabile: Carla Orfano - Autorizzazione Tribunale di
Torino n° 5671 del 13/02/2003 |
N° 1 - anno 11° - Dicembre
2011-Gennaio 2012
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PAGINA 3
"Di solito si regala ciò che piace
a noi.
Prova a pensare con la testa di chi è destinato il
dono"
Kin Hubbard
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Davanti al MIO
non fare
Oggi ho osservato il mio “non fare” per la prima volta senza giudicarmi.
Il mio star ferma davanti al “fare”.
L’unico antidoto sarebbe fare, semplicemente fare, ma non c’è il mio movimento.
Il “fare” che sto iniziando a osservare, il “fare” che si sta muovendo piano piano, dopo un lunghissimo sonno, è un “fare” che ora mi nasce da dentro, nel momento in cui comincio a provare amore per ciò che faccio, per le cose che tocco, la mia attenzione nel sentirle tra le mani e sentire le mie mani che accompagnano le cose, che si servono delle cose per “fare”.
Ho osservato quante cose fanno le mie mani e le mie braccia, ho osservato l’aiuto delle mie dita nel sollevare, nel tenere, una collaborazione di gesti e di azioni che, se mi soffermo, ha dell’incredibile.
E ho pensato a Chi ci ha costruiti, prima pensati e poi costruiti.
Ogni parte del nostro corpo ha una funzione per il nostro fare.
Come ho potuto pensare di sentirmi inutile, come ho potuto pensare che fosse inutile il mio “fare”?
Sto cominciando a fare per me, sto cominciando a capire che non è inutile fare per me perché se esisto è perché Qualcuno ha desiderato che io esistessi, Qualcuno che mi ha pensata, creata e amata.
Devo rispettarmi per questo.
Guardare e sentire le mie cose con occhi nuovi.
Per me.
Cercare cose nuove per uscire dall’abitudine non mi ha lasciato niente, la mia memoria riconosce quelle che ho già, quelle che mi sono familiari, che hanno una storia dentro di me, che avevo dimenticato ma che, in cuor mio, non ho mai smesso di amare.
Come si fa a sentirsi soli se c’è questo “sentire”?
Oggi ho questo stato d’animo.
Qualcosa si è mosso, anche se non so ancora definirlo, so solo che sto meglio, sto bene come non mi sentivo da tempo.
La soddisfazione è stata la mia ricompensa.
Rosanna
Fare o non fare?
L'abitudine, ancora l'abitudine mi fa pensare.
Spiegata da Carla l'ho vista, me la sono vista.
Ho visto come condiziona la mia vita.
L'abitudine non mi permette di vivere coscientemente.
E' come se non fossi responsabile della mia vita, di me stessa.
L'abitudine!
Vivere con abitudine è non evolvere perché non si fa esperienza.
Non ti fa scoprire, non ti fa osservare.
E' come se fossi narcotizzata e se non lo osservi rischi di non essere presente mai.
Allora a cosa serve correre da una parte all'altra, fare, fare, fare e non fare.
Sì, praticamente essere costantemente incoscienti.
Altro che amore.
Amore un cavolo.
Provare la differenza.
Risvegliarsi, questo fa la differenza.
sapere che è possibile e provare su sé stessi che si può.
Stare dentro.
Assaporare godere di quello che faccio, osservarlo.
Alina
La mia grande
soddisfazione
Come sto bene quando lavoro.
Stare con loro, parlare con loro e vedere quegli occhioni delusi cambiare espressione, sentirsi capiti, sentirsi ascoltati, parlare liberamente sapendo che non riceveranno una sgridata, come mi dicono essere abituati.
Se non avessi un lavoro dentro, tutto questo non potrei farlo, non saprei farlo.
Forse non saprei neanche cosa dire.
Invece le parole mi escono, parole che so fargli bene, per smuoverli da quel torpore in cui vedo tutti immersi, chi più chi meno, ma sempre castrati e soffocati, sveglissimi, ma addormentati, bellissimi, ma spenti, intelligenti, ma intontiti.
Poi vedo i risultati, da quello che mi raccontano loro, o i loro genitori o i loro voti a scuola, addirittura a volte anche i loro insegnanti, quelli un po’ più sensibili, che osservano i ragazzi e che si accorgono dei loro cambiamenti.
Tutto ciò mi rende felice, quando sono con loro non mi accorgo del tempo che passa, della luce che cambia, di come sono vestita, di cosa devo fare dopo o di cosa mi è successo prima.
Mi prende talmente tanto che poi sto bene, mi sento bene perché so di aver dato amore e questa è la cosa più appagante del mondo.
E quando vedo queste menti brillanti prendere vigore mi sembra di volare e che c’è sempre una via d’uscita, anche se le cose sembrano impossibili.
Stefania Pomi
Francesco Guardi - Supplica
Perché sbagliamo
Sbagliamo perché non ci conosciamo, non sappiamo quasi nulla di noi.
Gli errori che facciamo sono frutto della nostra ignoranza.
Una ignoranza fatta di aspettative, di invidie, di possesso ed ottusa presunzione.
Un non conoscersi che ci spinge a metterci in competizione per un bisogno di essere riconosciuti, di raggiungere dei risultati ed ottenere delle gratificazioni.
E' giusto avere dell'apprezzamento per il lavoro svolto, ma la prima riconoscenza deve arrivare da dentro di noi.
I condizionamenti oscurano il nostro percorso.
Siamo oscurati da inutili schemi che ci hanno appiccicato e non vediamo lo splendore che abbiamo dentro.
Non conosciamo bene o a volte per niente quello che potremmo essere in grado di fare.
Scoprire me stessa è un atto d'amore.
Scoprire e conoscere le mie capacità è un atto d'amore.
Guardare i miei errori è un atto d'amore.
Incontrare il mio sguardo sereno è un atto di riconoscimento che devo a me stessa.
Voglio ringraziare questa vita che mi ha dato tanto, voglio ringraziare le persone meravigliose che ho incontrato nel mio cammino, anche quelle che con me non sono state tanto buone.
Ogni esperienza è stata preziosa, anche se a volte dolorosa.
La mia vita è tutta la mia memoria, tutta la mia esperienza.
Io da questa vita ho avuto molto, ed oggi forse per la prima volta, ho la percezione di quanto io sia
fortunata.
Dal mio cammino ce ne è ancora....... voglio donare ad ogni giornata l'impegno di scoprire ancora di più chi sono io.
Gabriella
Quando "ero"
Io ero, io sono, tempo passato, tempo presente, che sono entrambi in me, perché davanti c’è io, io passato, io presente, ma io sono un tutt'uno, non c’è una linea che separa, che demarca, uno di là, uno di qua, no, ci sono sempre io.
Ecco perché non bisogna rinnegare il passato, ora lo comprendo meglio, perché fa parte di me, sono sempre io, io che si è trasformato, che si trasforma, e meno male che si è trasformato, che si trasforma, meno male che io posso vivere e comprendere questa trasformazione, io ero, io sono, ma sono un tutt’uno, ecco perché ogni secondo, ogni ora, ogni giorno è importante, perché fa in fretta a diventare era.
Ma anche quell’era, quell’io ero, deve essere diverso dall’altro ero, è un cambiamento, ed io voglio che avvenga questo cambiamento, perché lo sento giusto.
Non sono più quella che ero, ma anche quell’ero fa parte di me, non condannandolo e non rinnegandolo mi toglie dal rimorso, mi allontana dal rimorso.
Ero, ora sono, è una lenta trasformazione, c’è il tempo, ma c’è la coscienza, la presa di coscienza di quello che ero, di quello che non mi piace di quello che ero, di quello che voglio capire sempre di più perché il mio sono sia leggero dentro di me e il mio ero non diventi, non sia un macigno che non ho compreso, altrimenti anche il mio “io sono” sarà un macigno.
Io ero, io sono, passaggi, ma passaggi chiari, compresi sempre meglio, perché io non voglio essere quella che ero, perché nell’io sono c’è più chiarezza, c’è più disponibilità, c’è morbidezza verso di me, c’è la presenza nella sacralità della vita, ogni momento; questo è il mio compito, vivere con più coscienza, capire ogni secondo, per trasformare.
Non voglio andare là con il rimpianto, con il rimorso di non aver vissuto la coscienza di me, non voglio vivere il mio presente senza esserci, tutto è tempo, ma in quel tempo ci sono sempre io ed io voglio esserci, andare avanti, nonostante tutto intorno stia crollando, stia franando e non soltanto la terra, ma molti essere umani, io non voglio franare, scomparire senza aver vissuto me, il mio essere.
Gianna
La potenza del
pensiero
Quanti problemi mi creo da sola, con i miei pensieri, con le mie paure, con le mie convinzioni che mi bloccano, che non mi fanno osare, che mi fanno stare indietro, che non mi fanno lottare.
Mi rendo conto di quanta potenza ha un pensiero, di quanto mi può rovinare, bloccare, sbagliare, fermare.
Lo so, faccio tutto io.
E’ vero.
Eppure riesco a sentirmi male, a vedere tutto difficile, e questo mi crea anche rabbia.
Perché ho sempre così paura a farmi avanti?
Sono così stufa di me che mi prenderei a cazzotti.
In effetti hai più risultati se agisci, che non rimanendo lì a crogiolarti con le tue paranoie che non fanno altro che ingigantire tutto, facendoti credere di non farcela.
Gli altri non possono essere nella mia testa, vedono solo le mie azioni e se rimango ferma non dò certo un bell’impatto.
Devo essere la mia paladina e portarmi avanti.
Mentre scrivo sento che si sta sciogliendo qualcosa.
Luce
Il ciuccio di
Lele
Mi rivedo là in campagna con il bambino in braccio, ed io che piango.
Lui è disperato per il suo ciuccio, io cerco di consolarlo, ma il dolore è troppo e non ci riesco e le lacrime mi scendono, mi viene un nodo in gola, mi sento impotente di fronte ai suoi primi disappunti, che vorrei non avesse.
In un attimo ho visto l’uomo nel suo soffrire, le prime sofferenze e, man mano che si cresce, se ne incontrano altre e altre e altre ancora.
Si vuole una cosa in modo morboso, ad un tratto la si perde e arriva il dolore e la disperazione.
Mi spiace che debba affrontare tante brutte cose.
Io vorrei fargliele sorvolare da lontano, che non lo tocchino nemmeno, come se io potessi essere uno scudo e parare le frecce avvelenate, ma mi sono resa conto che non posso, che questa è la vita per crescere e poco o nulla posso fare al riguardo.
Credo di aver pianto per questo, per questa mia impotenza verso la crudeltà del vivere.
Eppure per crescere bisogna lottare e fare esperienza e superare gli ostacoli, altrimenti a che serve questo nostro faticoso vivere?
Io posso solo esprimergli tanta tenerezza.
Tutta quella che ho tenuto tanto tempo lì sopita, posso farlo sentire allegro, offrirgli una parte del mio tempo, parlare con lui, raccontargli le favole, preparargli un bel budino al cioccolato o seguire un cartone animato commentandolo e tenendomelo vicino.
“Nonna, nonna, nonna!”
Quante volte mi ha chiamata non lo so, ma mi sono resa conto che la mia disponibilità verso quel piccolo uomo non era fatica, ma veniva genuina ed il mio smettere dal far qualcosa per me, per correre da lui, non mi pesava più di tanto.
Mi sono vista molto paziente, se vogliamo dire così.
Così il bambino è stato molto bene e non ha mai chiesto di mamma ed i giorni sono trascorsi in allegria.
Con la sua spontaneità, il bambino ti fa fare delle risate che ti ricordano la giovinezza e che da anni non fai più.
La fatica fisica è stata notevole per impegno costante di notte e giorno e per il ricupero meno veloce delle energie spese, però ne sono stata contenta.
Me lo rivedo con la pompa in mano che bagna i fiori o con nonno a caccia di moscerini e lo vedo ridere e darmi le sue manine belle ed i piedini da baciare.
Grazie Lele, mi hai donato una settimana di gioventù e di freschezza, anche se disturbata un poco dai tuoi pianti per una cosa che hai creduto perduta per sempre.
I dolori dell’uomo cominciano da sempre e non finiscono mai, ma c’è anche il sorriso e l’allegria e questo è bello, bellissimo e mi consola.
Buon cammino da
Nonna Giugia
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